IL TRIBUNALE Decidendo ex art. 672 c.p.p. in ordine all'istanza di applicazione dell'indulto ex legge n. 241 del 2006 avanzata il 28 settembre 2006 dal difensore di Tulli Cosimo, ha pronunciato la seguente ordinanza. Tulli Cosimo e' stato condannato per un reato, impiego di denaro di provenienza illecita di cui all'art. 648-ter c.p. commesso fino al 1994, alla pena di anni cinque di reclusione ed euro 10.000,00 di multa con sentenza del Tribunale di Milano, sez. III penale, del 29 giugno 2002, divenuta definitiva a seguito della declaratoria d'inammissibilita' dell'impugnazione pronunciata con sentenza della Corte d'appello di Milano del 25 marzo 2004 (irr. 11 febbraio 2005). Nella motivazione della sentenza emessa dal Tribunale di Milano e' affermato in modo chiaro e diffuso (cfr. Parte IV, capitolo I, paragrafi 1 e 2) che i capitali investiti nella societa' Doge S.r.l. poi Vela S.r.l. - gestita da Tulli Cosimo insieme al fratello ed a Mollica Domenico e Morabito Leo - provengono dall'imponente attivita' di traffico di stupefacenti posta in essere, anche a livello internazionale, appunto dal Mollica e dal Morabito, quali capi di una vasta ed articolata organizzazione criminale a cio' finalizzata. Orbene, si chiede oggi al tribunale di dichiarare estinta in parte (altra parte e' gia' stata scontata dal Tulli in custodia cautelare) la pena inflitta con la sentenza sopra menzionata, in applicazione della legge n. 241 del 2006. Ritiene tuttavia il tribunale che la legge n. 241 del 2006 sia affetta da un vizio di legittimita' costituzionale nella parte in cui non prevede, tra i delitti rispetto alle quali e' esclusa l'applicazione dell'indulto, quello di cui all'art. 648-ter c.p., limitatamente all'ipotesi che il denaro, i beni o le altre utilita' impiegate in attivita' economiche o finanziarie siano provento di delitti concernenti il traffico di sostanze stupefacenti. Tale questione e' all'evidenza rilevante nella presente decisione, che ha appunto ad oggetto l'applicabilita' dell'indulto ex lege n. 241 del 2006 a pena inflitta per il delitto di cui all'art. 648-ter c.p. commesso mediante impiego in attivita' economiche di denaro proveniente da reati concernenti il traffico di stupefacenti. La questione non e' manifestamente infondata con riferimento agli artt. 3 e 27 terzo comma della Costituzione. In materia di sindacabilita' dei provvedimenti di clemenza - con specifico riferimento all'amnistia, ma la ratio decidendi e' pacificamente estensibile all'indulto - la Corte costituzionale ha da sempre affermato che: «... compete esclusivamente al legislatore la scelta del criterio di discriminazione tra reati amnistiabili e non, e che le relative valutazioni di politica criminale non possono essere sindacate, salvo che ricorrano casi in cui la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione (sentenza n. 4 del 1974). In precedenza e' stato anche riconosciuto che la diversita' del bene giuridico tutelato consente sempre una diversa valutazione politico-sociale e un differente trattamento ai fini dell'amnistia (sentenza n. 175 del 1971)» (Corte cost. sent. n. 214 del 1975). Quanto ai criteri di valutazione della ragionevolezza dell'inclusione od esclusione di determinati reati nel provvedimento di clemenza, poi, la corte aveva gia' precisato che essa «non e' necessariamente legata all'entita' della pena edittale prevista rispettivamente per gli uni e per gli altri, ma puo' farsi discendere da considerazioni di diverso ordine, come per esempio la maggiore diffusione di alcuni [reati] in un certo momento ed il conseguente maggiore allarme sociale, tale da sconsigliare per casi l'adozione di un atto di clemenza»; quanto poi alla valutazione del grado di omogeneita' delle fattispecie volata a vola incluse od escluse dal beneficio, la Corte ha accennato all'oggetto di tutela: «Una irrazionalita' potrebbe se mai prospettarsi ... quando la differente disciplina riguardasse reati lesivi dello stesso bene voluto proteggere: cio' che non si verifica nella specie ...» (Corte cost., sent. n. 175 del 1971; v. anche Corte cost., ord. n. 201 del 1983). Orbene, la legge n. 241 del 2006, all'art. 1, comma 2, lett. a) n. 26, indica tra i casi tassativi di inapplicabilita' dell'indulto, quello in cui la pena sia inflitta per il delitto di cui all'art. 648-bis c.p. «limitatamente all'ipotesi che la sostituzione riguardi denaro, beni o altre utilita' provenienti dal delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione o dai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope. Considera il tribunale che non sussiste ragione alcuna per conferire un diverso ed opposto trattamento giuridico alla pena inflitta, nelle stesse ipotesi, per il delitto di cui all'art. 648-ter c.p. I due delitti, infatti, sono caratterizzati dal medesimo scopo e dalla stessa oggettivita' giuridica: ostacolare la separazione dei proventi del reato dall'azione criminosa, cosi' agevolando la prova dei fatto-reato originario e rendendone economicamente inservibili i risultati; dunque, piu' ampiamente, la tutela dell'economica pubblica, della trasparenza del mercato, della concorrenza. Il delitto di impiego in attivita' economiche e finanziarie dei proventi di delitto, poi si pone, a livello di condotta, come ultimo momento di una azione di contrasto ordinamentale che e' svolta in stadi successivi, ma contigui e collegati non solo sul piano della fenomenologia criminale e, in ultima analisi, sul piano fattuale e storico ma anche e soprattutto, per quel che qui rileva, sul piano giuridico. Cio' e' dimostrato anzitutto dalla successione sistematica - per una volta indubbiamente significativa, degli artt. 648, 648-bis, 648-ter del codice penale, e poi dall'ancor piu' importante clausola di specialita' inserita in esordio di tutte e tre le norme: il ricettatore e' punito solo se non ha concorso nel reato principale, il riciclatore solo se non ha concorso e non ha ricettato, l'investitore di capitali illeciti solo se non ha concorso, non ha ricettato e non ha riciclato. Cio' significa che, in astratto come in concreto, e' ben possibile - e del resto lo si verifica empiricamente assai di frequente nell'attivita' giudiziaria - che chi ha posto in essere il reato presupposto, sia anche il riciclatore e l'investitore del capitale illecitamente ricavato. Cio' significa ancora che le condotte di cui si tratta sono talmente contigue da rendere necessario l'inserimento di apposita clausola di consunzione, per evitare che il reo sia punito piu' volte per un'azione che, qualora le comprenda tutte o ne comprenda piu' d'una, il legislatore considera unitariamente sul piano oggettivo - tanto e' stretta la loro connessione spazio-temporale -, sul piano soggettivo -- comune essendo il nesso teleologico che le connota - e di disvalore. Sul piano puramente soggettivo, inoltre, sia le fattispecie di cui all'art. 648-bis c.p. che quelle di cui all'art. 648-ter c.p. sono caratterizzate da dolo generico che, nell'inveramento processuale, diviene, in entrambi i casi, critico sul medesimo punto: la dimostrazione della consapevolezza, da parte del soggetto attivo, della provenienza delittuosa del bene riciclato o investito. Tale equipollenza oggettiva, soggettiva e di disvalore tra il delitto di cui all'art. 648-ter c.p. e l'art. 648-bis c.p. si traduce poi nell'identico trattamento sanzionatorio, molto aspro, previsto per le due ipotesi: in entrambi i casi la reclusione da quattro a dodici anni e la multa da euro 1.032,00 ad euro 15.493,00. Anche sotto l'aspetto processuale i delitti di cui si tratta sono trattati allo stesso modo: procedibilita' d'ufficio, competenza del tribunale in composizione collegiale, consentiti l'arresto facoltativo in flagranza, il fermo, tutte le misure cautelari personali. Entrambi rientrano in casi di indagini collegate ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., a riprova della stretta connessione fattuale e probatoria che essi determinano tra loro e rispetto al reato presupposto (cfr., quindi, artt. 197, lett. a) e 197-bis, comma 2 c.p.p.). Viceversa nessuno dei due delitti e' menzionato nell'ambito di norme speciali in materia di attribuzioni del pubblico ministero distrettuale (art. 51, comma 3-bis c.p.), o di prolungamento dell'ordinario termine per le indagini (art. 407, comma 1, lett. a) c.p.p.). Anche il trattamento in fase esecutiva delle pene inflitte per i reati di cui si discute e' identico: non si tratta di reati per cui sia vietata la concessione di benefici penitenziari ex art. 4-bis, legge n. 354 del 1975, con i conseguenti riflessi in materia di emissione dell'ordine di esecuzione della pena ex art. 659 c.p.p. Da questa rapida panoramica di desume che il legislatore ne' sul piano sostanziale, ne' sul piano processuale, ne' sul piano dell'esecuzione della pena, diversifica mai la disciplina collegata ai reati di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. Si deve esaminare, allora la questione se, con specifico riferimento all'indulto, sussista una qualche ragione che possa fondare la rilevata discriminazione. Ma la risposta non puo' che essere negativa. L'indulto e' causa di estinzione della pena. Il legislatore ha stabilito che la pena inflitta per il delitto di riciclaggio di cui all'art. 648-bis c.p., nella specifica ipotesi in cui abbia ad oggetto proventi derivanti dal traffico di stupefacenti, e' esclusa dall'applicazione dell'indulto. La regola trova un solido fondamento politico-criminale, avendo all'evidenza il legislatore ritenuto che - al pari di altri delitti in materia di stupefacenti - si tratta di comportamenti cosi' gravi da non meritare sgravio alcuno e da escludere dal novero di quelli il cui minore impatto criminale giustifica un trattamento piu' mite, anche in chiave di alleggerimento, per l'amministrazione, degli oneri connessi all'esecuzione della pena. In altre parole il legislatore ha ritenuto che, rispetto a quei comportamenti, il fine general preventivo e specialpreventivo della pena - costituzionalmente tutelati a mente dell'art. 27, terzo comma Cost. -, attuati in concreto mediante la pena irrogata in via definitiva, non possono trovare affievolimento - in ragione della entita' e tipologia del danno criminale arrecato dai reati in questione - rispetto alle ragioni sottese al provvedimento di clemenza, di carattere molto generale e legate soprattutto alle condizioni di vita dei detenuti e di gestione delle carceri. Cio' posto, in relazione alla omogeneita' intrinseca delle due fattispecie ed alla conseguente omogeneita' di trattamento loro costantemente riservata sul piano sostanziale, processuale ed esecutivo, non si puo' che rilevare la totale mancanza di giustificazione che possa sorreggere la scelta normativa - diametralmente opposta a quella adottata per il riciclaggio - di ammettere il beneficio dell'indulto per le pene inflitte per il delitto, punito ai sensi dell'art. 648-ter c.p., di investimento di proventi derivanti da traffico di stupefacenti. La discrasia e' talmente macroscopica da far ritenere trattarsi del frutto non gia' di una consapevole scelta di politica criminale, quanto piuttosto di una banale svista nella redazione della norma. Di qui la palese violazione del parametro costituzionale che impone di trattare in modo identico situazioni identiche rispetto alla disciplina di riferimento (art. 3 Cost.) e di quello che impone di tutelare il fine general preventivo e special preventivo della pena (art. 27, comma 3, Cost.). Appare dunque non manifestamente infondata - in relazione agli artt. 3 e 27, terzo comma Cost. - la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 2, legge 31 luglio 2006, n. 241 nella parte in cui non prevede che l'indulto non si applica per il delitto previsto dall'art. 648-ter del codice penale limitatamente all'ipotesi che l'impiego in attivita' economiche o finanziarie di denaro, beni o altre utilita' provenienti dai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope.